Splendore e decadenza del soprannome romano.

Dei tanti aspetti che rendono così insopportabilmente impeccabile la romanità, quello del soprannome l’ho sempre ritenuto uno dei più notevoli. Di norma, il soprannome dovrebbe essere per definizione un aggettivo; persino la storia ci ha tramandato sequele di sovrani consacrati all’eternità da un attributo: Carlo il Calvo, Filippo il Buono, Pipino il Breve. Volendo svariare un po’, troviamo un Riccardo Cuor di Leone o un Giovanni Senza Terra, ma sono comunque epiteti assimilabili a un classico Achille Piè Veloce: una qualità comunemente riconosciuta, ma non assegnata ad personam.

A Roma no. A Roma è tutto diverso. A Roma è tutto più grande. A Roma, il soprannome è per definizione un sostantivo. Un sostantivo per giunta preceduto dal fondamentale articolo “Er”: in questo modo la qualità non è più solo attribuita in concessione, ma viene assolutizzata. Chi riceve il soprannome ne diventa il detentore esclusivo, l’unico interprete riconosciuto, autorizzato e accreditato. Il massimo e più autorevole esponente.

Esempio. Un vecchio ragioniere amico di famiglia, affabile e cordialissimo ma noto per la propria proverbiale lentezza operativa, è ormai comunemente identificato come Er Moviola. Capite la potenza? La grandezza? L’incisività? A Lumezzane o a Porto Sant’Elpidio sarebbe stato semplicemente il Lento. Ma lui non è il Lento. Lui è Er Moviola.

Altro esempio. Un mio carissimo amico, chitarrista sopraffino, ama talvolta definirsi Er Metafora: ciò deriva dal fatto che quando racconta fatti insoliti o divertenti dispone di un talento sontuoso nell’arricchire la narrazione con similitudini complesse ed elaborate ma nondimeno sempre pregnanti ed efficaci. Una volta ci raccontava accorato di due amici che malgrado gli sforzi faticavano a lavorare insieme a causa del carattere molto diverso, flessibile a accomodante l’uno, pignolo e maniacale il secondo: “Considera che Tizio fosse per lui risolverebbe il conflitto israelo-palestinese in dieci minuti; Caio invece lascerebbe il foglio con le istruzioni pure alla donna delle pulizie.” Insomma, è proprio vero che ventisette parole valgono più di mille parole.

Ma come si sono evoluti i soprannomi romani negli anni? Ricordo che una decina di anni fa, in pieno boom Costantino&Daniele, incontrai sul treno Roma-Lido (com’è noto, tra i principali ritrovi dell’intellighenzia letteraria capitolina), due simpatici coattelli abbigliati in stile “Troppo belli”: jeans strappicchiati, sneakers, t-shirt pseudofashion, giacchetta yeah.

(…che poi, ora che ci penso, è all’incirca il modo in cui vado io in ufficio oggi, ma vabbè, questo sarebbe un altro discorso.)

La loro fu una conversazione leggendaria che serbo scolpita nell’ipotalamo assieme alle altre sequenze indispensabili per la mia sopravvivenza emotiva, come il codice fiscale, la serie di Fibonacci, la tracklist di The Dark Side Of The Moon e la lista dei rigoristi di Italia-Francia. In pratica due sere prima c’era stata questa clamorosa, incredibile rimpatriata dei vecchi tempi, e si era organizzata una bella partita di calcetto come si conviene per celebrare al meglio l’evento.

Erano venuti proprio tutti, ma tutti tutti eh: Er Crepa, Er Tacca, Er Frappa, Er Mefisto; e insomma, credeteci o no, a fine serata li aveva raggiunti pure Er Mezza Fella. Sì, proprio lui! La serata, e il racconto, erano poi proseguiti con la narrazione delle spassosissime peripezie der Mefisto ad Amsterdam: dopo due giorni aveva già finito i soldi e si arrangiava dormendo per strada e scippando le vecchie. Che matto!

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Un’immagine di repertorio del Frappa.

Va detto che dopo dieci anni ancora non c’è unanimità sul significato preciso di tutti i soprannomi, malgrado abbia interpellato, in momenti diversi, esperti provenienti da diversi municipi, e financo dai comuni limitrofi. Sul Frappa c’è poco da dire, ovviamente: era sicuramente uno col naso grosso (ovvero “la nasca” o appunto “la frappa”); sul Crepa la teoria ormai comunemente accettata è che fosse uno dedito a piccole ruberie veniali, o magari uno che non restituiva i soldi ricevuti in prestito (uno che appunto “si crepava” la roba); Er Mefisto è stato identificato da molti antropologi come uno che stava a rota colle miccette (Mefisto è una marca nota di petardi economici), ma una corrente minoritaria ipotizza che potesse essere provvisto di un talento notevole e apprezzato nell’arte della flatulenza; chiaro il significato di Mezza Fella (il nome volgare della “mezza piotta”, ossia della banconota da cinquanta euro), ma non il perché caratterizzasse il suo detentore: forse un riferimento a un prestito in qualche modo passato alla storia, oppure il ricordo di un ingente acquisto di fumo? Infine, piena e totale oscurità sul Tacca: forse qualcuno che amava tenere il conto delle proprie copule sull’armadio? Nessuno lo sa con certezza. *
Di sicuro, senza neppure averla vista, la compagnia si presentava comunque variegata, intrigante, a suo modo pacatamente gagliarda.

Un mesetto fa invece tornavo da un caffè con un’amica (cioè, non era esattamente un’amica ma anche questo sarebbe un altro discorso…) ed ero per mia sfortuna su un autobus, con questi due gruppetti di ragazzini tra medie e inizio liceo. In mezzo, due ragazze più o meno carine, e tanto basta per scatenare il classico contrappunto protomachista a base di “Mbè, che cazzo te guardi?”, oltremodo spassoso vista l’età e la statura dei contendenti. A un certo punto uno del gruppetto di coda si alza ed avanza traballante verso il centro, con fare secondo lui spavaldo, incitato dai suoi drughi: “Boooo, Er Bestia s’è incazzato!”. Lo chiamavano proprio così: Er Bestia. Piccolo particolare però: Er Bestia era un cazzettino alto sì e no un metro e quarantatré, stabile come lo stipendio della stagista di un call center e robusto come l’erezione del decano della Corte Costituzionale. Poteva bastare una pacca sulla spalla un po’ troppo convinta per mandarlo in rianimazione. Eppure per i suoi amici lui era Er Bestia.

Di chi è la responsabilità di una denominazione così rovinosamente overpromising, come diciamo noi pubblicitari? Di Romanzo Criminale, ovvio. Non può essere diversamente se nell’ultimo lustro il soprannome romano si è incattivito e intrucidito in modo sistematico, perdendo però tragicamente di credibilità. Siamo passati dalla sorniona faciloneria der Crepa, bono e caro anche se poi magari te dà la sòla, alla ridicola isteria der Bestia, il campione cittadino dell’autosopravvalutazione. E allora mi chiedo: è questa la città che vogliamo lasciare ai giovani? Sono questi i soprannomi che vogliamo consegnare ai nostri figli? Perché se le cose rimangono così, e lo dico a malincuore, io a Roma non ci torno.

* Le ricerche si sono improvvisamente ridestate proprio grazie a questo post. Condivido qui per pienezza informativa il prezioso contributo tempestivamente inviato dal Prof. Alessandro Zuccherofino: Il problema qui è che i soprannomi romani dipendono tanto da momenti “storici”, in cui commetti qualcosa per cui sarai bollato a vita da un determinato gruppo di amici, che da tue caratteristiche ontologiche. Al che, il famigerato “Tacca” potrebbe essere sia uno a cui il cellulare non prende mai (le tacche a Roma sono le barre che indicano la qualità della linea ricevuta dal cellulare) oppure un tizio parsimonioso che a forza di essere definito taccagno diviene “Er Tacca”. Non possiamo inoltre escludere il fatto che facesse semplicemente Tacca di cognome. Senza la spiegazione degli amici, è veramente impossibile da capire.”

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