-PART ONE-
I copywriter sono per loro natura cultori della parola e del linguaggio. Molti di loro sono affascinati dal “funzionamento” della lingua, dalle sue regole grammaticali e di sintassi, e naturalmente anche dalle sfumature di significato, mutevoli a seconda della latitudine e del contesto.
Alcuni copywriter italiani amano in modo viscerale la loro lingua. Soffrono quando vedono un errore grammaticale, mugolano di fronte a un “perchè” con accento grave, hanno un mancamento al cospetto di “un’altro” o “un pò”, si inalberano di fronte a un “quì” accentato, in barba a qualsiasi regola su accenti e apostrofi, come se il vecchio detto “su qui e su qua l’accento non va”, ripetuto per 5 anni di elementari, non fosse servito a nulla. E infatti non è servito a nulla.
Questi patrioti della lingua non sono però, come si potrebbe pensare, dei puristi. Amano molto le altre lingue, in particolare l’inglese, che nel loro lavoro è onnipresente: d’altra parte la stessa parola “copywriter”, come quasi tutta la terminologia pubblicitaria, è di origine anglosassone. Insomma, va bene l’inglese purché non se ne abusi, il che li rende acerrimi nemici di coloro che di questa lingua hanno sviluppato una personalissima interpretazione: gli account.
L’“accountese” è oggi infatti considerato in tutto e per tutto una variante dell’inglese. È parlato soprattutto nel settore del marketing e della pubblicità, ed esclusivamente in Italia. Eh già, perché se un account italiano usasse gli stessi termini, da lui molto spesso inventati all’occorrenza, in un’agenzia londinese, verrebbe guardato con profonda diffidenza o, alla peggio, spernacchiato senza pietà.
L’“accountese” è infatti un idioma nato sul campo, o meglio, in sala riunioni, nei “briefing”, durante i quali è vitale che i creativi capiscano cosa diavolo devono fare. L’account senior inventa un nuovo termine lipperlì, e tutti gli account sottoposti annuiscono fingendo spudoratamente di sapere di cosa egli stia parlando. I creativi allo stesso tavolo si riconoscono subito: sono quelli con l’espressione perplessa, che cercano di mettere a fuoco la parola appena pronunciata, vagamente consci di essere stati vittima di qualcosa di molto simile a una supercazzola.
Capita sovente che un account executive dell’agenzia parli al telefono in inglese, atteggiandosi a madrelingua, con l’account pari livello della multinazionale cliente, nonostante entrambe le società siano nate in Italia proprio come loro. Il tutto sempre sotto gli occhi esterrefatti del copy che sta passando di là. Il poveretto si ritrova poi in copia a un’email tra i due soggetti di cui sopra, che recita più o meno così: “… allego un rational xls, un summary delle attività e una timeline per stabilire le priorities. Sono anche sottolineate le deadline critiche per la consegna del progetto…”. Certo dire “ecco cosa dobbiamo fare e per quando” era troppo facile.
Alla fine chi è che si lamenta, dando la colpa a tutto il mondo tranne che a sé stesso, se il brief su cui i creativi hanno lavorato giorno e notte per settimane era sbagliato? Che domande.
Daniela Montieri
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